La stupidità conduce alla catastrofe (come le elezioni presidenziali americane hanno dimostrato)

Qualche anno fa, avevo scritto per il giornale dell´università di Padova un articolo sulle competenze di base degli studenti, dove raccontavo di un esame sulla politica estera americana in un corso di laurea magistrale. La storia era questa:
“Mi parli di come iniziò la guerra fredda”.
“Beh, ci fu il piano Marshall…”
Interrompo, pazientemente: “Quello arriva dopo: come si passò dall´alleanza antinazista alla rottura fra USA e URSS?”.
Risposta: “Gli Stati Uniti si opponevano all´espansionismo sovietico”. Un po´ ideologico, ma promettente.
E in quali paesi si temeva che l´Unione Sovietica installasse regimi a lei favorevoli?”
Improvvisamente, vedo lo studente impallidire sotto la barba, comincia a fissarsi le scarpe con insistenza, la temperatura corporea scende. Dopo un buon minuto di riflessione, riesce a sussurrare:
“L´Ucraina”, mi fa lui con il tono di chi è sul punto di svenire.
“L´Ucraina faceva parte dell´Unione Sovietica, non dei paesi satelliti”, rispondo.
“I paesi baltici?”
“Anche quelli”.
Sorrido con l´aria incoraggiante: “Senta, prendiamo una scorciatoia. Se lei va in macchina al valico di Tarvisio, in che paese si trova?” (mi vergogno di me stesso, trasformare un esame in gita fuori porta per salvare studenti ansiosi, ma non saprei che altro fare).
“Tarvisio?”
“Sì, Tarvisio”.
“Ecco, Tarvisio, in questo momento ho un vuoto, non saprei”.
Lo guardo meglio: è una persona normale, avrà 27 o 28 anni, è iscritto a una laurea magistrale e vuole uscire dall´università in marzo, con un titolo di studio che gli permetterà di accedere a ruoli dirigenziali nella pubblica amministrazione, candidarsi per lavorare in organismi internazionali, magari pensa di fare il volontario per Emergency. Però non sa dov´è Tarvisio.
Mi chiedo a cosa serva l´università, perché siamo qui? Cinque anni di elementari, tre di medie, cinque di superiori, tre di laurea di primo livello, due di laurea magistrale: totale 18 anni di studio in cui qualcuno, da qualche parte, in qualche momento, avrebbe dovuto dire: “Bene, ragazzi, allora l´Italia con quali paesi confina?”. Forse quel qualcuno c´è stato, una maestra diligente o un professore delle medie che riteneva importante la geografia, ma il mio studente non ascoltava, non leggeva, non guardava la carta geografica.

Naturalmente, non volevo associarmi al coro di lamentele in stile Paola Mastrocola sul fatto che “non c´è più la scuola di una volta”, versione moderna del “Signora mia, non ci sono più le mezze stagioni!”. È vero che molti studenti arrivano all´università senza sapere cosa significano parole presenti ogni giorno nei titoli dei giornali come “preambolo”, “diatriba”, “recessione”, “legislazione” o “intercettazione”. Purtroppo, la ricetta di tornare alla scuola della selezione, ai “licei di un tempo” non è la soluzione: il liceo classico rimpianto dall´autrice torinese era un´istituzione che accettava solo i figli dei privilegiati, chi arrivava con alle spalle famiglie colte e benestanti.